gli quali disiano onore di cavalleria. Io vi foe manifesto che
lo amore si è una cosa e una via la quale mena altrui a prodezza e a cortesia; e lo amore si è riposo d’ogni fatica. E
imperò voi che disiate onore e nominanza di prodezza, servite bene e lealmente l’amore, e abbiate innamorato lo vostro
cuore». E a ogni cavaliere errante conveniva sapere nobilmente lettere; sí che andava ogni mattina alla colonna, e si
si lavava e specchiava suo visaggio, e leggeva quegli versi
sopra scritti. E per tale usanza era appellata quivi la Tavola
Ritonda. E nel seggio lá ove mangiava lo re con alcuno barone, era questa usanza: che avendo egli buone novelle, sí si
beveva con coppe d’oro; e per lo contrario, a coppe d’ariento.
E ’l palagio e la sala e ’l cerchiòvito era tutto ritondo; che
sedendo a tavola, l’uno vedeva l’altro per viso; e quando erano
quivi dentro, erano tutti tondi, cioè una cosa; e tutti stavano
a una posta e fediano a uno segno, cioè che stavano alla posta
della ubbidienza, e traevano a uno segno, cioè allo amore.
E tutti erano cavalieri innamorati, campati e nominati di
prodezze per tutto quanto il mondo. E di ciascuno paese veníano quivi a provare ciascuno sua persona in fatti d’arme; e
provavansi piú e piú volte; e potea esser trovato tanto pro’,
ch’era ricevuto per cavaliere errante; e alcuno che non si trovava tanto pro’, sí si metteva in avventura sí come cavaliere
straniero, però che cavaliere errante non poteva egli giá essere.
S’egli aveva cura di reame o di cittá o di castello, non poteva ancora essere ligittimamente, acciò che la sollecitudine
della avarizia nollo traesse della prodezza. E anche cavaliere
errante non poteva essere s’egli aveva mogliera, acciò che la
cura e la pigrizia nollo traesse della prodezza. E da sé egli
dovea cessare ogni altro pensiere, di non avere cura né a
rendite né a ricchezze né a tesoro né a cosa che ’n sua cavalleria lo potesse impedimentire. E ora lascia lo conto di parlare dello re Artus e degli cavalieri della Tavola Ritonda, e
si conteremo de’ fatti di messer Tristano. (Cap. LXII).