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la leggenda di tristano | 179 |
sua dama e presela in braccio ed incominciolla ad abracciare
ed a basciare molto istrettamente. E quando Isotta dele bianci
mani era in braccio a T., ella non domandava altro a Dio
nostro segnore se non di stare tutta fiata con T. in braccio.
E a tanto dimorarono in cotale maniera che la notte si trapassoe e lo giorno appressimava molto forte. E quando lo re
vide lo giorno, fue molto allegro e incontanente sí prese li
drappi e partisi dela camera e andoe nela sala delo palagio.
E quando fue nela sala, ed egli sí trovoe molti baroni e cavalieri e molte dame e damigelle, le quali lí sí faciano molto
grande allegrezza. E istando per uno poco, e lo re sí andò
ali suoi baroni e cavalieri, e incominciarono a parlare di
molte aventure e dela grande allegrezza, la quale eglino aviano
di T.
CXXXVI. — A tanto dice lo conto, che quando T. vide lo giorno, incontanente sí prese li drappi e partisi dela camera e andoe nela sala delo palagio. E quando fue nela sala, ed egli sí trovoe lo re e Ghedin con molti baroni e cavalieri. E quando lo re vide T., fue molto allegro e fecegli molto grande festa. Ma istando in cotale maniera, e T. andò a sedere cogli altri baroni e cavalieri. E lo re sí disse a T.: «Per mia fé, T., ch’io sí voglio fare uno dono ora, davanti a tutti li miei baroni e cavalieri; e questo sí vi voglio io fare per la grande prodezza e per la grande cortesia, la quale è in voi. E imperciò voglio che voi sí siate segnore di tutta la Pititta Brettagna da ora innanzi. E anche sí voglio che voi sí dobiate ora prendere la corona e davanti a tutta questa gente». E quando T. intese queste parole, sí rispuose e disse: «Per mia fé, ree, io non abo presa Isotta vostra figliuola per volerne vostro reame, imperciò ch’io abo assai reame per mee. E imperciò voglio che voi sí abiate e tegliate vostra corona e dobiate mantenere vostra terra, sí come voi fatto avete dinfin a quie. Ed appresso di voi sí lo donerete a Ghedin, vostro figliuolo, lo quale sarae pro cavaliere d’arme, ed a lui sí conviene piú ch’a mee. E imperciò io non vi domando se non Isotta, la quale voi m’avete donata».