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La cucina dell’alberghetto era piena di operosità e di luce e la fiamma del focolare non era spiacevole.
Ma io cercai inutilmente un posto per me, e l’ostessa allora mi disse: — Abbiamo apparecchiato di là, nella saletta, — e mi vi condusse; e aperta una porta mi trovai in una elegante e luminosa stanza da pranzo, dove alcuni signori, ad un’unica tavola, erano già pervenuti alle frutte, rappresentate da un cestello di meravigliose ciliegie bianche e rosee.
Quei signori avevano tutto l’aspetto di essere i legittimi possessori del luogo ed io mi credetti in dovere di chiedere permesso prima di sedermi al posto per me preparato.
Quei signori mi accordarono il permesso gentilmente, ma non senza una certa gravità e lunghi sguardi di indagine sulla mia persona.
«Chi potevano essere? — Pensavo. — Viaggiatori di commercio? No: questa gente è più allegra e chiassosa. Villeggianti? Nè meno: sono più signorili. Gente del luogo, nè pure, perchè tali non li dichiarava l’accento.»
Tutti pigliavano l’intonazione e lo spunto da un biondo, adiposetto, giovine signore, non privo d’un certo contegno e gravità nel gesto e nella parola. Sedeva in capo tavola.
— Lei va all’Abetone? — mi chiese costui.
— Per servirla, sissignore!