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Alla sua volta egli declamò alcune liriche tedesche che io intesi bene come egli intese le mie.
Suppongo, per altro, che anche le sue dovessero essere liriche patriottiche, giacchè la sua bocca, cinta dalla barba dorata, si apriva per mandar fuori certi boati solenni, certi rugghi di V a t e r l a n d, che in tutt’altra occasione mi avrebbero fatto ridere, e allora invece io lo stavo ad ascoltare pensosamente come se avessi compreso più che egli non dicesse.
Così parlammo a lungo con la lingua d’angelo de’ nostri poeti e ci intendemmo come se, invece di recitare versi, avessimo cantato delle ariette musicali.
Non è però da nascondere che in quella osteria di Torino, ad aiutare la reciproca intelligenza di due liguaggi così diversi, molto giovò — oltre alla potenza della poesia — un raggio di sole che si era fatto Barolo entro il mistero di alcune bottiglie.
Il vino, inoltre, e l’amor di patria fecero sì che il tedesco ed io ci guardassimo fraternamente negli occhi.
Ciò non sempre avviene: questo nobile liquore e questo nobilissimo sentimento spingono sovente individui e popoli a guardarsi biechi come cani ed a picchiarsi senza pietà.