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Grazie, — dissi io, correggendo per effetto di antica abitudine.

— Oh, grazie, signore; niente crazie, — mi replicò con profonda effusione, questa volta. — Io, — proseguì egli, — Rudolf Meyer, professore di Gymnasium, venuto in Italia anche per imparare italiano. Dimandare sempre: Come dicete voi questo?

— .... dite....

— Ah, sì, dite! Domandar sempre, ma nessuno correggere....

— .... quando sbaglio.... — suggerii.

— Oh, sì, quanto spaglio, ma dire tutti: «dicete come ti piace!»

(Onesto teutonico, — pensai fra me, — questa non è soltanto la terra degli aranci, ma anche del «dicete e facete come ti piace».)

Tuttavia proseguire più oltre nel discorso non era possibile, perchè il mio vocabolario tedesco era così ricco come il suo di vocaboli italiani. Fu egli allora che, appiccicatomisi per riconoscenza dell’indicata Dora, mi propose di parlare latino.

Questa proposta mi lusingò perchè evidentemente io dovetti sembrargli uomo erudito e per bene, benchè il mio abito fosse molto negletto. Veramente anche lui, con quel solito mezzo verde, dalle cui falde venivano fuori due piccoli calzoni, sospesi sopra, due