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nelle vallate sottostanti; ma quella certa nudità di roccie e di neve, giù a basso, e gli urli del vento che fischiava obliquamente da crepacci e da fessure, mentre noi passavamo, la rendevano interessante.

Allo scalo, posto a quattro o cinquecento piedi di altezza (noi ci trovavamo a più di diecimila piedi al disopra della mensa degli ufficiali, fra i pini) era di un sistema — che ricordava le impronte d’edera quando questa è staccata dai muri — tutto a risalti e a sentieri di neve battuta fino all’indurimento, che univa i baraccamenti alla cabina adibita a cucina, alla mensa degli ufficiali ed io immagino persino alla piazza d’Armi della guarnigione. Se al cuoco fosse capitato di lasciarsi cadere una secchia dalle mani, egli avrebbe dovuto scendere non meno di seicento piedi per ricuperarla. Se ad un visitatore prendesse la voglia di andare un po’ lontano, allo svolto di un angolo, per ammirare lo stupendo panorama, egli si scoprirebbe agli Austriaci, che sono profani dell’arte, e che ben presto farebbero volare al suo indirizzo degli shrapnells. Tutto questo mondo di «nidi d’aquila» ferveva di giovani vite e di energia, mentre tavole, travi di ferro, e balle di ogni materiale venivano portate su col filo aereo; mentre la montagna sovrastante, che dominava ancora per centinaia di piedi fino alla vetta, pareva ripiegarsi su tutto questo Insolito mondo.

«Il nostro vero lavoro trovasi un po’ più in su — soltanto di pochi passi, essi insistevano. Ma