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scomparsa, scorrendo nel suo disgelo tra gli steli dell’erba disseccata intorno agli orli delle buche scavate dalle granate. Questo maggiore, come gli altri, comandava un osservatorio. Quando egli ne fece scattare l’apertura, noi potemmo — simili a falchi — gettare il nostro sguardo sopra una città austriaca, che aveva un ponte diroccato attraverso un fiume, e su linee di trincee italiane che strisciavano e che sembravano tutte disposte come su una carta topografica verso la città, attraverso pianure allagate dal fiume, tremila piedi sotto di noi. La città aspetta mentre decisioni, delle quali essa nulla sa, si stanno maturando in alto, per sapere se dovrà vivere o perire.

Nel frattempo, il Comandante ci additò le sue bellezze, perchè essa era un suo possedimento per diritto di dominio eminente ed egli su quella esercitava l’alta, la media e la bassa giustizia. Mentre sorbivamo il caffè, sopraggiunse un subalterno, con la notizia che gli Austriaci — diecimila metri più in là — stavano smuovendo qualche cosa che rassomigliava ad un cannone. (I cannoni assumono ogni sorta di forma, quando debbono essere trasportati). Il Comandante si scusò e i telefoni chiamarono altri osservatori collocati qua e là, fra i grovigli di alture sconnesse e laggiù nella macchia sottostante.

No — disse poco dopo, scuotendo il capo — «non è che un carro; non vale la pena di sciuparvi un colpo adesso». Vi era altrove la caccia assai più grossa in prospettiva e credo vi fosse l’ordine di non farla alzare troppo presto.