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[1285] | del vespro siciliano. | 343 |
Per questa ragione medesima gli scrittori del tempo, anco i nostri, e fin il sommo poeta d’Italia1, che di tanto fu più grande di quei re combattenti, esaltavano a canto all’Aragonese, l’emolo Carlo d’Angiò, lodato per valor pari e più chiare vittorie, biasimato al paro di slealtà, ma senz’arte alla violenza nè alla frode, onde Pietro, che meglio se n’intendea, lo raggirò e vinse. Più pesante tiranno fu Carlo, invidioso e uggioso ne’ costumi privati, e nello stato avarissimo, connivente ai suoi sgherri, inumano, spregiator delle genti italiane2, calpestator d’ogni dritto, nimico fin dalla prima sua dominazione di Provenza a tutte franchige, anzi odiatore de’ suoi stessi sudditi; e punito del maggior martiro che il Cielo serbar poteagli, mancando di lenta morte, nella rabbia di veder lieta e forte quella Sicilia che straziata lo maledisse, gli rese onte per onte, sangue per sangue, spezzò il suo scettro, troncò il corso alle sue esterne ambizioni, la sua schiatta per due secoli combattè.
Invano ad aiutar questo Carlo intendea con tutto lo sforzo del pontificato, Martino, la cui vita e la morte non sarebber da istorie, se non che preoccupato da umori di nazione e di parte, e ritenendo sotto il gran manto gli antichi ossequi, proruppe ai narrati scandali, onde le due penisole bagnò di sangue, espilò tutte le chiese d’Europa, profanò l’armi della croce.
Da costui suscitato e da volgar vanità e cupidigia, Filippo
- ↑ Purgatorio, canto 7.
- ↑ Questa particolarità è riferita da Francesco Pipino, in Muratori, R. I. S., tom. IX, cap. 19.