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[1254-56] | del vespro siciliano. | 19 |
in che stato rimanessero i feudatari; ma li veggiamo quale appigliarsi di gran volontà a questa novazione, e quale ubbidirla tacito e torvo, aspettando tempo; talchè è manifesto, che gli umori guelfi e ghibellini divideano già il sicilian baronaggio. Mezz’anarchia fu quella, e imperfetta lega di feudatari forti e parteggianti, di città aduggiate dalle radici dell’aristocrazia e del principato; e debolmente il nome della Chiesa li rannodava. Potea il tempo consolidar quello stato, al par delle italiane repubbliche; ma il principato repente
risorto lo spense. E dalle novazioni i popoli voglion frutto più prestamente che la natura non porta; e delusi gittansi allo estremo opposto; l’invidia morde i privati; la parte che ama gli ordini vecchi rimbaldanzisce. Questo in Sicilia seguì. Risorgea Manfredi in terraferma; la parte pontificia mancava; trionfava in fine la sveva. A ciò levaronsi i feudatari, che per costume, interesse e orgoglio teneano, la più parte, pel re; i repubblicani si sgomenarono; e sì rapido fu il precipizio, che pochi anni appresso, repubblica di vanità l’appellava Bartolomeo di Neocastro.
Ondechè mentre Federigo Lancia riducea le Calabrie con un esercito per parte sveva, un altro se n’accozzò di feudatari in Sicilia. Arrigo Abate con esso entrò in Palermo; e imprigionò il legato del papa, e quanti parteggiavano per lo stato libero. Corse per l’isola poi vittorioso; ruppe a Lentini Ruggiero Fimetta, principal sostenitore della repubblica, o de’ feudi che per tal riputazione gli avea largamente dato papa Alessandro: ma a Taormina trovò Arrigo assai duro il riscontro; e si bilanciavan le sorti, se non era per la rotta che toccarono i Messinesi in Calabria. Perocchè l’esercito loro, grosso di cavalli e di fanti, osteggiando in quelle province i manfrediani, fu colto con improvvisa fazione da Lancia, quando saccheggiata Seminara sbadatamente movea per lo pian di Corona; e attenagliato