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18 | la guerra | [1254-56] |
tutta. Incontanente il papa spacciò vicario Ruffin da
Piacenza, de’ frati minori: il quale era a grandissimo onore raccolto in Palermo, in Messina, e per ogni luogo, e onorato con feste popolaresche; al venir suo tripudianti gli si feano incontro cittadini, e sacerdoti, e vecchi, e fanciulli; di palme e di rami d’ulivo spargeangli il sentiero, come a liberator del paese; tutti si inebriavan di gioia e di speranza nel nuovo stato. Richiamaronsi allora un conte Guglielmo d’Amico, un Ruggiero Fimetta, ed altri Siciliani usciti fin da’ tempi dell’imperator Federigo, per umori guelfi, o di libertà. Libertà gridavan tutti: le città, terre, e castella si strinsero con patti reciproci: e su questa confederazione il vicario pontificio comandava nel nome della Chiesa. Così intorno a due anni si visse in Sicilia, dal cinquantaquattro al cinquantasei. In Puglia e in Calabria, nel medesimo tempo, fu più contrastata la dominazione tra i principi, che bramata dai popoli la libertà; perchè men disposti v’erano che que’ di Sicilia, e il papa, e Manfredi, ambo vicini, a vicenda sforzavanli a ubbidire.
E ciò sol si ritrae dagli storici de’ tempi. Quali fossero gli ordini delle novelle repubbliche di Sicilia, se popolani, se misti d’oligarchia, ne è ignoto. Forse nessuno ben saldo se ne statuì; forse come i cittadini adunati a consiglio, deliberavano per l’addietro su i negozi municipali, come i maestrali per l’addietro li amministravano, fecesi allora in tutte le altre parti del governo. I vincoli scambievoli delle città, i limiti dell’autorità del papa e del legato, i consigli pubblici che a questo fosser compagni, non ricorda la istoria; se non che abbiam documenti di concessioni feudali in Sicilia, fatte dal papa a baroni parteggianti per esso; la qual cosa dimostrerebbe piuttosto la confusione o l’usurpazione dei poteri pubblici, che l’esercizio di quelli a buon dritto stabiliti. Nè alcuno scrittore ci ha tramandato