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[1282] | del vespro siciliano. | 195 |
Tempio, Giovanni Schaldapidochu, e un Romano, che di furto mettesser in città le sue genti; i quali furono scoperti e puniti nel capo. L’insospettito popolo di Messina allora, tumultuando chiamava al supplizio Federigo di Falcone, che forse avea consigliato la resa, brontolando «il mal fatto ne basti;» e minacciava anco Baldovin Mussone, il deposto capitano, che intendendo la venuta di Pietro, occultamente era uscito dalla città per andarne al re; ma i contadini di Monforte, credendol indettato coi nemici, l’avean preso e condotto a Messina. Alaimo salvò entrambi, imprigionandoli nel castel di Matagrifone1.
Soprastato in questi vani pensieri alcun dì, intese Carlo con maggiore rammarico l’esser della città da un Morello, ch’uscito in sembianza di paltoniere, e preso da’ soldati, affermava il tenacissimo proponimento alla difesa; e aggiugnea sue favole di sterminate provvedigioni di vittuaglie; bande novellamente scritte; disegni contro la vita del re, imminenti, atroci, ordinati con cinquecento cavalieri spagnuoli e duemila pedoni messinesi, che giurato avvessero al comune d’irrompere disperatamente nelle regie tende in una improvvisa sortita de’ cittadini, nella quale il grido di guerra sarebbe «al campo, al campo2.» Fosse arte o caso, questo dir del prigione che parve cominciato ad avverarsi in pochi giorni, diede la pinta al re; il quale ripugnando a partirsi, aspettava e differiva.
A toglier ch’altri stuoli entrassero in città sull’orme di Palizzi e d’Andrea Procida, il dì ventiquattro settembre re Carlo avea fatto occupare il palagio dell’arcivescovo, poco lungi dalle mura. Un de’ suoi più fidati mandovvi con dugento soldati, che muniti di steccato e fosso nello edifizio per sè fortissimo, teneano il passo della via di Sant’Agostino a ponente della città. Ma Alaimo incontanente divisa