macchinava: che i baroni indettati con esso aizzavano
forse il popolo, ma non si sentivano per anco forti abbastanza, e
bilanciando e maturando forse non avrian mai fatto ciò che la
moltitudine compì senza rifletterci. Il popol era mosso senza saperlo
dall’antagonismo nazionale; ma ben sapea i suoi mali, e che rimedio ce
n’era un solo. Gli aggravî per l’impresa di Grecia, gli oltraggi della
settimana innanzi pasqua in Palermo, l’intollerabile insulto di
Droetto colmaron, colmaron la misura: si trovò tra le tante migliaia
una mente o leggiera o profonda, con una mano risoluta, che cominciò.
Prontissimo il popol di Palermo di mano e d’ingegno, si lanciò in un
attimo a quell’esempio, perchè tutti voleano a un modo, da parer
congiura a mediocre conoscitore, che non pensi come sendo disposti gli
animi, ogni fortuito caso accende sì eguale, che trama od arte nol
può. Que’ che si fecer capi del popolo allora preser lo stato;
ordinaronlo a comune, come portavano gli umor loro; per la riputazione
del successo il tennero, finchè la influenza de’ baroni lentamente
spiegossi, e il pericolo si fe’ maggiore. Allora la monarchia
ristoravasi; allora esaltavan re Pietro; allora, io dico, operava la
congiura, se v’ebbe congiura; nel vespro non mai. Al meraviglioso
avvenimento poi tutto il mondo cercò una cagione meravigliosa del
pari: dopo breve tempo, il fatto del vespro e quel della venuta di
Pietro si ravvicinarono e si confusero: scorsi alquanti più anni,
trapelava qualche pratica anteriore: alcuno forse l’accrebbe,
vantandosi. E nel reame di Napoli, e nell’Italia guelfa, e in Francia
con maggiore studio si propalò quella voce della congiura; parendo
gittar biasimo su i Siciliani, e scemarne al reggimento angioino. Così
via corrompendosi il fatto, si passò dalla congiura di Procida con tre
potentati, a quelle strane favole della uccisione di tutti i Francesi
in Sicilia in un dì, anzi in un’ora, della cospirazione di una intera
nazione per