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110 | la guerra | [1281] |
danno gli scritti nostri di quel tempo, ne’ quali il rozzo stile, al toccar della corte di Roma, rinfocasi a un tratto, sfavilla d’immagini scritturali, suona le aspre parole del ghibellin poeta. Il che nascea in parte dagli universali umori d’Italia; e dalla cultura delle lettere, in cui primo tra gli altri popoli italiani s’esercitò quel di Sicilia sotto gli Svevi1; in parte dall’antica indipendenza de’ nostri principi dal papa, dagli spessi contrasti loro, dalle spregiate censure, dalle vicende stesse della repubblica del cinquantaquattro, messa su dai papi e abbandonata dai papi; e dal tristo dono infine di quest’angioino re. Nondimeno, perch’ei, come usurpatore, conoscea feudal signore il papa, e la religione a quei dì teneasi come pauroso fantasma, non patto di giustizia e di pace, parve ai nostri, che il sommo pontefice solo riparar potesse lor torti, pastor egli e sovrano. Perciò allo scoppiare del vespro i Siciliani poi gridavano il nome della Chiesa. Perciò al francese Martino supplici or ne venivano a nome di Sicilia tutta, due sacerdoti eletti tra i più venerandi e savi del regno. Bartolomeo vescovo di Patti, e frate Bongiovanni de’ predicatori fur questi. Forniano con grande animo la missione consigliata da credula miseria. A corte del papa, presente Carlo, orarono: e «Mercè, Bartolomeo cominciava, mercè o figlio di David; il demonio la figliuola mia fieramente travaglia:» e tra pianti e rampogne sponea la grave istoria. Superfluo è a dire che si fe’ sordo Martino. Carlo dissimulò: ma usciti i due oratori dal palagio, i suoi scherani li circondarono; trasserli in duro carcere. Macerato da quello il frate espiò a lungo la sua virtù cittadina; corruppe i custodi il vescovo di Patti, e fuggissi2.
E niente domato dalla violenza, tornò in Messina; e contò