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vere a Napoli, una vita da convento fino a che vi morì dopo il 1870.

La lettera del conte di Siracusa, scritta dal Fiorelli, produsse, com’era da prevedere, un effetto immenso. Erano giorni quelli di continue sorprese stupefacenti, e i giornali liberali portarono alle stelle don Leopoldo. Si era così perduta la misura del senso morale, che questi atti trovavano laudatori entusiastici. I ministri ne furono impensieriti, ma il Re si mostrò quasi indifferente. Di fronte a questa interna decomposizione, il lavoro diplomatico a Torino e a Parigi andava in fumo. Invano il Manna e il Winspeare, a Torino, e il Lagreca a Parigi, chiedevano che la Francia e il Piemonte ottenessero da Garibaldi una tregua di sei mesi, per condurre a termine le trattative di un’alleanza col Re di Sardegna e per riunire il Parlamento napoletano. Cavour, presa nelle sue mani la direzione del movimento nazionale, e messo a disposizione del Persano un milione di lire, che questi, come confessa nel suo Diario, non spese che in piccola parte, aveva tenuto a bada i due delegati napoletani, tanto che il Manna, accortosi della corbellatura, la sera del 10 agosto parti per Parigi, seguito, dopo pochi giorni, da Canofari che andava a surrogare Antonini, il quale, stanco alla sua volta degl’insuccessi e più di essere lasciato senza istruzioni, aveva mandate le sue dimissioni. Manna fu uno degli invitati al pranzo diplomatico, che il ministro Thouvenel diè, il 15 agosto, ai rappresentanti esteri per la festa dell’Imperatore. A quel banchetto assistette anche il Lagreca, il quale, privo di qualunque attitudine diplomatica, non aveva saputo o potuto far nulla, anzi si era smarrito nelle riserve impostegli, quando partì da Napoli. Le quali riserve furono anche cagione del suo insuccesso, secondo confessò più tardi il conte di Persigny al barone di Letino, Carbonelli, direttore dei lavori pubblici, anzi reggente di quel ministero, durante l’assenza del Lagreca. Le relazioni negative di Manna e di Lagreca erano argomento di tristezza per i ministri, più ancora che per il Re, il quale non mutava il suo contegno, ora apatico e fatalistico, ora sospettoso e sarcastico. Nei Consigli di Stato egli udiva le relazioni dei ministri e dei direttori, e faceva le sue osservazioni, spesso acute e argute, senza però curarsi se erano accolte no. Qualche volta si divertiva, facendo pallottole di carta e buttandole in aria, o cincischiando con la matita sui fogli,