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ottenne dal maggiore De Cornè, comandante la piazza, persona ben veduta ed amica dei maggiorenti della città, che venisse armata la guardia nazionale coi fucili delle truppe di deposito nel castello. L’armamento della guardia nazionale ristabilì l’ordine e impaurì il De Monaco, il quale, smessa la consueta arroganza, chiese il patrocinio di alcuni influenti cittadini, ed ottenne così di partire qualche giorno dopo con la numerosa famiglia, di notte tempo, da Taranto.1


L’opera dei Comitati insurrezionali, specie di Cosenza e di Basilicata, mirava a persuadere il popolo che Francesco II, alla prima occasione, avrebbe ritirata la Costituzione. I Comitati lasciavano vedere dovunque reazioni e congiure, e così si sfogavano vendette e vecchi rancori. Ma la città, che più dava da fare al ministero, era Gaeta, dove la truppa, come ho detto, non aveva voluto gridare Viva la Costituzione. Questo fatto destò tali inquietudini, che quel sindaco scrisse direttamente al ministero perche fossero allontanati gli ufficiali reazionari D’Emilio, Candela e Prato; i camorristi Niccola e Paolo Gallo, Paolo Freiles, Salvatore Saggese, Antonio Esposito e alcune guardie della vecchia polizia, e fossero nel tempo stesso mandate armi per la guardia nazionale. Arresti ed esilii di reazionarii si succedevano a Reggio, donde venivano espulsi “gli sbirri siciliani, arrestati e minacciati di vita, insieme al boia, don Vincenzo Siclari, di questa città, che aveva stretta relazione colla detta sbirraglia„. Cosi scriveva l’intendente di Reggio al ministero; e Giacchi decretava a margine del rapporto: “bello esempio di patria carità e di energia in aver così celeremenie salvato il proprio paese da sicuro disastro. Se ne abbia per ora lodi senza fine„.

Le guardie nazionali, sorte in fretta e in furia, mancavano generalmente di disciplina e di armi, ed erano impotenti a mantenere l’ordine. Il sottointendente d’Isernia chiedeva truppe, quasi presago dei futuri eccidii del 30 settembre; truppe doman-

  1. Ne seguì un lungo processo. Il De Monaco riparò a Roma, e nel 1862 fu condannato in contumacia a 14 anni di lavori forzati, per reato di complicità in mancata strage. Il suo procuratore don Michele Quercia di Trani chiese che lo si ammettesse alla reale indulgenza del 17 novembre 1863. Ma la domanda fu rigettata dalla Sezione d’accusa, e l’avvocato Bax ne sostenne il ricorso in Cassazione.