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del ministero, e soprattutto di Romano e di Giacchi, senza con- tare, naturalmente, le ire dei colpiti, che arrivavano al cielo. Oramai le provincie avevano nuovi intendenti, nuovi capi della magistratura e, soprattutto, nuovi capi di polizia. Filippo Capone, da qualche anno reduce dall’esilio, fu nominato intendente di Avellino; Domenico Giannattasio, a Salerno; Alfonso de Caro, a Lecce; Giuseppe Tortora-Brayda, a Campobasso; Giuseppe Dentice di Accadia; a Reggio; Pasquale Giliberti, a Cosenza; Cataldo Nitti, a Potenza; il conte Francesco Viti, a Caserta; Pasquale de Virgilii, a Teramo; Ignazio Larussa, a Catanzaro; il barone Coppola, a Bari: tutti sinceramente costituzionali, ma sospetti, quasi tutti, agli unitarii, perchè partigiani della confederazione; ne sospetti soltanto, ma tenuti d’occhio in tutte le loro mosse, e perciò in condizioni molto difficili, politicamente, anzi pericolose addirittura, e quasi umilianti per essi. I ministeri subivano grandi mutazioni nel personale, principalmente quello di polizia. Si può affermare che di questo ministero, e dei vecchi suoi funzionarii, non rimanesse quasi nessuno in carica.

Il patriziato legittimista, il quale, dal giorno che venne concessa la Costituzione, fu posto da parte, si credeva in dovere di manifestare la sua napoletana indifferenza per quel che avveniva. Parecchi di quel patriziato lasciavano Napoli un po’ alla volta, e i rimasti non si tenevano dal mostrare al Re il loro dispetto, nà potendo altrimenti protestare contro di lui e contro gli atti del suo Governo, decisero di togliergli il saluto. Quando lo incontravano per via, o lo causavano, o fìngevano non vederlo, nò si conciliarono con lui, che qualche anno dopo, a Roma. Potrei fare dei nomi, ma è meglio lasciarli nella penna.

Al Re erano riferite tutte queste cose, e sinceramente se ne affliggeva. Notava che ogni giorno il vuoto si faceva maggiore intorno a lui. Oramai dei vecchi amici non se ne vedeva intorno che pochi, e dei nuovi non si fidava. Fra i ministri, mostrava predilezione per Spinelli e Torella, e una relativa fiducia nel De Martino, il quale, con le due missioni di Manna e Winspeare a Torino, e di La Greca a Parigi, contava di far argine alla rivoluzione invadente e salvare alla dinastia le provincie continentali. Diffidava, in modo fin troppo palese, del Romano, che chiamava familiarmente don Liborio, e per celia, qualche volta, tribuno