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stato d’assedio. Nel maresciallo Russo si concentrarono tutt’i poteri, ma egli, alla sua volta, non andava di accordo col generale Gaetano Afan de Rivera, comandante la terza divisione del corpo d’esercito. Non esitò a minacciare il bombardamento della città; e poiché era rozzo e spavaldo, si temette che volesse veramente eseguire la minaccia. I consoli di Francia e d’Inghilterra avrebbero fatte delle proteste, non solo a difesa dei proprii connazionali, ma anche della popolazione di Messina, ed è verosimile anche questo, perchè, dopo le sanguinose repressioni del giorno 10, non si temeva che i tumulti potessero rinnovarsi.
A Catania i disordini furono lievissimi e vennero facilmente sedati. Intendente e comandante militare andavano in pieno ac- cordo. Intendente era il principe di Fitalia, nipote di Ruggiero Settimo, succeduto ad Angelo Panebianco; e comandante, il generale Tommaso Clary, nipote dell’arcivescovo di Bari e figliuolo del vecchio generale. Il Clary mori a Roma nel marzo del 1878, quasi ottantenne. Quando io lo conobbi, era un amabile vecchio, pieno di vivacità e non privo d’ingegno: borbonico sincero e convinto, non a torto, che senza l’opera del Piemonte, occulta da principio, palese, fin troppo, dopo Marsala, e senza l’aiuto morale dell’Inghilterra e della Francia, la rivoluzione in Sicilia non avrebbe avuta fortuna. Nel 1860 il Clary contava fra i migliori generali dell’esercito e da un anno comandava la brigata di Catania. In data 16 aprile egli riferiva al luogotenente che il suo vero flagello a Catania, era quel vice console inglese Ieans, come suo flagello a Messina, dove venne destinato più tardi al comando della cittadella, era quell’altro console inglese, Riccards, messo su, diceva egli, dai fratelli Lella, console l’uno e viceconsole l’altro di Sardegna. E già prima del Clary, il maresciallo Russo, con suo rapporto del 19 aprile, li aveva denunziati, ma inutilmente.
Il governo dette prova di energia dappertutto; e Rosolino Pilo, sbarcato la sera del 9 aprile a Messina, con pochi compagni, aveva dovuto, per sottrarsi alla caccia della polizia, trovare scampo nelle montagne di Palermo, con la convinzione, come si è detto innanzi, che si trattava oramai di partita rimessa a miglior tempo, salvo che Garibaldi, del quale affermava la prossima venuta, non fosse riuscito a riaccendere il