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erano devotissimi. La famiglia monastica, la quale possedeva una rendita di ducati 82 600, pari a lire 360 626, era formata da 42 sacerdoti, da 14 novizii e da 22 conversi. Il monastero, vasto quanto una città e ricco d’influenza economica e morale, era fonte di beneficenza inesauribile. L’appartamento dell’abate, che occupava il Re, era degno di lui. Abate era don Enrico Corvaja, il quale, a capo della comunità, ricevette il Re ai piedi del magnifico scalone. Ferdinando fu scherzoso ed arguto con lui e coi monaci, dei quali conosceva parecchi, chiamandoli per nome, e ripetendo il solito suo saluto agli ecclesiastici: bacio le mani. Ricevute le autorità, ascoltò la messa. Scendendo in chiesa, volle che si sonasse l’organo, affermando che, pur avendolo udito altre volte, se ne sentiva sempre commosso. Cavò di tasca un libro di preghiere, pieno di immagini sacre, fra le quali fu vista quella di San Francesco di Paola. Quando, voltando le pagine, gli veniva innanzi qualcuna di quelle effigie, egli la baciava, e un monaco, tuttora vivo, assicura di averlo veduto anche piangere. Dopo la messa ci fu il ricevimento delle deputazioni.
Visitati i lavori del porto e l’ospedale militare e civile, tornò al monastero per il pranzo. Nell’attraversare un corridoio, gli si fece incontro un giovinetto, figlio di Gabriello Carnazza, il solo della provincia di Catania, che fosse stato escluso dall’amnistia, e con commosse parole perorò la causa del padre. Ferdinando II, impressionato dalla sveltezza del giovane, promise di provvedere, ma poi non ne fece nulla, e Gabriello Carnazza restò in esilio fino al 1860. Il giovinetto di allora, Giuseppe Carnazza Puglisi, fu poi deputato di Noto e Siracusa e sindaco di Catania, ed oggi è professore in quell’Università. Venne ricevuto dal Re anche il professore Catalano, il quale, insieme ai colleghi Marchese, Geremia e Clarenza Cordaro, era stato rimosso dal suo posto d’insegnante, per i fatti del 1848. Il Catalano disse coraggiosamente al Re, che come suo sovrano poteva fargli troncare il capo, se colpevole; ma non poteva rimuoverlo da una carica, che si era acquistata con lunghi studii. Il linguaggio franco e dignitoso del professore non fu senza effetto, perchè il Re ordinò che fosse il Catalano richiamato alla cattedra, ma i colleghi di lui non ottennero nulla. Il Marchese fu richiamato più tardi.
Alle nove il Re uscì in carrozza, accompagnato dal duca