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in un cantuccio del suo ampio scrittoio, dove rideva in sè de’ risentiti modi, a’ quali dava io di piglio a certe enormi tavole de’ logaritmi del Callet. In quel cantuccio vidi e conobbi quanti v’erano più insigni uomini e donne in Sicilia: Giovanni Meli, Domenico Scinà, Rosario di Gregorio, nomi che non periranno: il principe di Belmonte Ventimiglia, splendida natura d’uomo ed il principe di Villarmosa (chiamossi anche duca di Castelnuovo), più severo intelletto; l’amicizia dei quali nobilitò i primi giorni dell’ultima Costituzione siciliana, ma le susseguenti lor gare l’offesero. Nè infrequenti riuscivano le visite di Nelson e d’Emma Liona al P. Piazzi; ed una volta io fui testimone del nobile coraggio con cui egli usò far rimproveri ad Emma pe’ miseri casi di Napoli. Varcato il mio terzo lustro, entrai più addentro nella cognizione degli uomini e delle cose di Sicilia; ed un dì fummi additato Ruggiero Settimo, prode e leale, con cui non mi venne mai fatto di favellare, nè mai più lo rividi: ma il suo volto mi sta vivo nell’animo, ed or che godo ascoltando il suono della sua fama, parmi guardarlo e potergli stringere la mano. Ascoltai nell’Università di Palermo gl’insegnamenti economici dell’austero ingegno di Paolo Balsamo, il quale s’erudì nell’Inghilterra; presso lui conobbi Niccolò Palmieri, che mi precedeva sol di sette anni ed ebbe cari gli affetti miei verso lui, ricambiandomene con puro e schietto animo; carissima gara tra un giovinetto ed uno, che usciva oramai da’ fanciulli. Spuntava intanto l’anno 1802 e Palermo vedea congregarsi quel generale Parlamento, che il re apriva della persona e che non s’era mai più visto da lunga stagione. I vescovi e gli Abati dell’Ecclesiastico Braccio convenivano alla augusta, solennità; i Baroni del Regno faceano pompa d’inaudito splendore nell’insolita festa e nuova mostra di feudali ricchezze: ma cheti e dimessi stavano quei pochi, da cui si rappresentava il Braccio Demaniale delle Città e delle Castella. Il Re chiedeva i danari e per tre giorni deliberava il Parlamento innanzi di concedere; nei quali oh! quanta gioia inondava i petti, scorgendosi nei Comizii dell’Isola sedere il Monarca di Napoli! Ben v’era tra’ Napolitani allora chi con generale invidia faceasi a contemplare quegli eccelsi riti del Parlamento Siciliano, rimpiangendo le sorti del proprio paese, cioè della parte maggiore d’un regno unico, spogliata da più secoli de’ Parlamenti suoi, e fatta nel 1800 scema financo d’una bugiarda larva di libertà Municipale, ristretta in quelli che si chiamavamo i seggi o i sedili di Napoli! Or chi può dire quanto nel 1802 la bella Palermo a me paresse da più che non la mia bellissima Napoli. Con quanta letizia del mio cuore Io salutassi la Sicilia ne’ miei più fervidi anni! Ma poco appresso io la lasciavo sperando di rivedere, come seguì dopo molte sventure, il caro e venerato Maestro, che mi strinse al suo petto; rividi anche lo Scinà ed il Gregorio in Napoli, ma il mio Niccolò Palmieri non dovea più venirmi dinanzi agli occhi sulla terra.
Tale io, caldo di siciliani affetti, mi dipartiva da Palermo nel 1802, tenendola, come mai sempre la terrò, per mia seconda patria. Vennero poscia i novelli rivolgimenti di Napoli, da capo il Re si riparò in Sicilia nel 1806 e fra noi piantossi la straniera signoria coi suoi modi particolari, de’ quali non parlo. Ma non tacerò al tutto delle leggi che ci divisero dalla Sicilia, ponendo la pena del capo a chi ricevesse una qualche lettera dalla moglie o dal marito se colà dimorassero: e però ci dettero