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più i caporali che i soldati. Tutti per esservi ammessi dovevano essere nobili, ma non si andava pel sottile a ricercare la nobiltà. Metà erano guardie a cavallo e metà a piedi, ma per turno, sicchè tutti dovevano essere buoni cavalieri. Erano esenti dal servizio di governo dei cavalli, che veniva fatto da altrettanti garzoni. Dopo questa riforma, il primo capitano fu un tenente generale, il principe di Ruoti, don Giuseppe Capece Minutolo, ed il primo tenente un maresciallo di campo, il principe di Migliano, don Gerardo Loffredo. Ne fecero parte tutti i nobilissimi del Regno, i Tuttavilla, i Carafa di Traetto, i Caracciolo, gli Statella, i Lucchesi, i Del Pezzo, i Del Carretto, i Belgioioso, i Casapesenna, i Paterno, i Mastrilli e via dicendo. L’appartenere alle guardie del corpo, che avevano smaglianti uniformi, era un sogno dei giovani signori napoletani. Di tutti quelli chiamati a comporre la compagnia da Ferdinando IV, nella suddetta riforma del 1815, ne vivevano nel 1882 due soltanto: Achille Paternò e Diego Candida. Un decreto del 13 marzo 1843 modificò alcune delle disposizioni rigorose per l’ammissione dei giovani nella compagnia, ma mantenne la necessità delle stesse prove di nobiltà per gli uscenti nei vari gradi.
Fra le guardie del corpo si mantennero sempre salde le tradizioni di lusso, di giuoco, di debiti e di vita dissipata. Come un giovane era ammesso nel corpo, doveva comprare il cavallo e appena lo presentava, gli veniva pagata la somma di 120 ducati. L’assegno annuo consisteva in circa quindici ducati al mese, oltre al doppio foraggio per il cavallo. Ma le guardie del corpo dovevano obbligatoriamente assistere alle rappresentazioni del San Carlo e pagare l’ingresso; sicchè si prelevavano dalla massa queste spese, e alla fine dell’anno ciascuna guardia non liquidava sul suo stipendio più di un’ottantina di ducati netti. Questo misero assegno, del tutto insufficiente al lusso di cui le guardie del corpo si circondavano, le poneva nella necessità di rovinarsi. Guardia del corpo divenne sinonimo di scapestrato, d’indebitato, di prepotente e di volgare spiritoso. Tutti parlavano come il Re il dialetto napoletano coi suoi più plebei idiotismi.
Con un Regno, le cui coste si sviluppavano largamente nel mare che lo bagnava da tre parti, Ferdinando II non dedicò