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reputazione della Corte Suprema nel campo giudiziario. Se in questa facevan utile tirocinio gli alunni di giurisprudenza, alla Consulta vi erano i relatori che uscivano, ordinariamente, consiglieri d’intendenza o sottointendenti. Se l’alunnato di giurisprudenza produsse magistrati come Talamo, Capomazza, Giannuzzi-Savelli, Nunziante, Bussola, De Marinis, Ciampa e tanti, che onorarono e alcuni ancora onorano la magistratura napoletana, la Consulta diè amministratori come Giuseppe Colucci e Gaetano Cammarota, e magistrati come Vincenzo Calenda e Luciano Ciellaro. Nel 1855 erano relatori, tra gli altri, Gaetano Pacces, oggi prefetto in ritiro; Vincenzo Calenda, procuratore generale della Cassazione di Napoli e il fratello Andrea, già prefetto di Roma. Colucci e Cammarota uscirono nel 1862 sottointendenti il primo, a Cittaducale, e il secondo, a Gerace. Dalla Consulta uscì pure Mariano Englen, governatore di Salerno nel 1860, poi consigliere d’Appello di Napoli, il quale ebbe nel 1870 un quarto d’ora di celebrità, perchè, presentandosi candidato nel primo collegio di Napoli, contro l’ex sindaco Guglielmo Capitelli, cambiò partito, passando da destra a sinistra e il passaggio tentò giustificare con un opuscolo intitolato: Trasibulo in Italia. Era, del resto, un brav’uomo.

Aggiunto alla Consulta esisteva un ufficio speciale per la concessione del regio exequatur sulle bolle di Roma, anzi sulle carte di Roma, come si diceva in linguaggio ufficiale. Delegato a tale uffizio era, per le provincie napoletane, il Capomazza e per la Sicilia, Michele Muccio, presidente della Corte Suprema di Palermo. Sulle carte di Roma don Emilio portava tutta la sua tanucciana diligenza. In quegli anni non fu consumata e neppur tentata alcuna usurpazione dalla Curia romana. Il Re non recedeva dai suoi diritti, sanciti dal Concordato. Rispettava il Papa; l’ospitò largamente a Gaeta, a Napoli e a Portici; fece la famosa e poco gloriosa spedizione negli Stati della Chiesa; andò, nel luglio del 1866, a Porto d’Anzio, dove Pio IX era a villeggiare, conducendovi il principe ereditario, ma nulla di più. I vescovi li sceglieva lui, baciava loro la mano, ma dovevano essere ecclesiastici di sua fiducia. Il regio patronato non era per Ferdinando II una cosa da burla e la maggior parte delle diocesi di tutto il Regno, più di cento, tenendo conto delle prelature nullius, erano di regio patronato.