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Ne son pegno le candide colombe
Che sul tuo palco si posar.1 Non falla
Oh non falla il tuo sogno! È Libertate
Che i suoi campi apparecchia, e, dileguate
Alfin di Tirannia l’ombre mortali,
Sulla terra de’ Martiri raggiorna!

(Torino 1857, Tip. Nas. di G. Biancardi).



Documento XII, volume I, cap. X.


La difesa di Agesilao Melano


scritta da lui medesimo la notte che fu l’ultima di sua vita, pubblicata per cura di I. S. D. L., e diligentemente corretta dal barone V. C., il quale è Vincenzo Caprara, romano, che viveva a Napoli. Fu stampata nella tipografia di Gaetano Nobile, e benchè non porti data può ritenersi una di quelle numerose pubblicazioni che, fatta l’Italia, dilagarono per la penisola, celebrando vivi e morti in prosa e in versi, di diverso contenuto e spesso vacue, e tutte d’incerta forma grammaticale. È quasi superfluo osservare che questa difesa non può assolutamente essere attribuita ad Agesilao Milano. A una breve prefazione apologetica, che attribuisce al Milano qualità non solo di virtù e valore, ma doti di “profondo filosofo non meno che di valente teologo e letterato„, segue l’autodifesa, scritta da lui — come il titolo dice — la notte che fu l’ultima di sua vita: sedici pagine di una tronfia prosa, in cui la più evidente declamazione si unisce a disquisizioni filosofiche e a ricordi biblici, quali certo non potevano ricorrere alla mente di un condannato, nelle sue ultime ore. Dopo un breve esordio rettorico, l’A. di questa difesa, premesso che “esiste la mondo l’antichissima setta dei re, sostenuta per delitti e tradimenti di ogni sorta con la complicità del Prete-re, che devia e corrompe il verbo di Dio„ narra com’egli sia stato spinto alla determinazione del regicidio dallo spettacolo quotidiano dei regi soprusi e delle tiranniche soperchierie e dalla carità di patria; e, con frequenti citazioni latine dell’Apocalisse, rivendica il diritto di uccidere un tiranno, “conciosiacosachè niuno abbia ardimento di accusarlo nè la legge forza alcuna per condannarlo„. Ecco il contenuto della difesa, la quale evidentemente è l’opera di un maestro di scuola.


  1. Cinque bianche colombe furono viste dal popolo sul patibolo di Agesilao Milano, e così pure piace di vedere al poeta, ma veramente queste colombe non furono vedute, Il poeta si ostina a chiamarlo Melano e così pure la Mancini.