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sacre, fra le quali fu vista quella di San Francesco di Paola. Quando, voltando le pagine, gli veniva innanzi qualcuna di quelle effigie, egli la baciava, e un monaco, tuttora vivo, assicura di averlo veduto anche piangere. Dopo la messa ci fu il ricevimento delle deputazioni.

Visitati i lavori del porto e l’ospedale militare e civile, tornò al monastero per il pranzo. Nell’attraversare un corridoio, gli si fece incontro un giovinetto, figlio di Gabriello Carnazza, il solo della provincia di Catania, che fosse stato escluso dall’amnistia, e con commosse parole perorò la causa del padre. Ferdinando II, impressionato dalla sveltezza del giovane, promise di provvedere, ma poi non ne fece nulla, e Gabriello Carnazza restò in esilio fino al 1860. Il giovinetto di allora, Giuseppe Carnazza Puglisi, fu poi deputato di Noto e Siracusa e sindaco di Catania, ed oggi è professore in quell’Università e senatore del Regno. Venne ricevuto anche il professore Catalano, il quale, insieme ai colleghi Marchese, Geremia e Clarenza Cordaro, era stato rimosso dal suo posto d’insegnante, per i fatti del 1848. Il Catalano disse coraggiosamente al Re, che come suo sovrano poteva fargli troncare il capo, se colpevole; ma non poteva rimuoverlo da una carica, che si era acquistata con lunghi studii. Il linguaggio franco e dignitoso del professore non fu senza effetto, perchè il Re ordinò che fosse il Catalano richiamato alla cattedra, ma i colleghi di lui non ottennero nulla. Il Marchese fu richiamato più tardi.

Alle nove il monarca uscì in carrozza, accompagnato dal duca di Calabria, dal conte di Trapani e dal principe di Satriano, per godere lo spettacolo della città illuminata. Lampade di cristallo pendevano da tutti i balconi e le botteghe erano illuminate a cera. Sul piano di Sant’Agata sorgevano quattro trofei e altri quattro in piazza dei Quattro Cantoni; e fra i trofei, tele colorate a trasparente, la maggiore delle quali si ergeva sul palazzo di città e rappresentava, in misura quasi doppia del vero, Ferdinando II. "Quella grande effigie — leggesi nell’accurata e inedita cronaca dell’avvocato Benedetto Cristoadoro — appariva, da lontano, come quella del Nume tutelare che vegliava sulla città„. Mentre si tornava al monastero, giunta la carrozza al piano di Sant’Agata, da tutti i punti della piazza s’innalzarono a un tempo globi luminosi e si accesero fuochi.