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fici ai degni la Maestà Vostra render pago questo fervido voto dalla popolazione, che rappresenta, ond’essa poter più da vicino rassegnarvi l’omaggio della sua alta devozione, fedeltà e gratitudine.


Questo indirizzo portava la firma di tutti i componenti il Corpo della città. Era patrizio titolare il cavalier Gioeni, ma, per l’assenza di lui, funzionava da patrizio Tommaso Paternò Castello di Bicocca; ed erano senatori, il dottor Francesco Fulci, Francesco Moncada, Francesco Zappalà, Vincenzo Marletta e Carlo Zappalà Bozomo. Al Fulci nacque in quei giorni un bambino, che chiamò Ferdinando.

Il re arrivò a Catania alle ore 7 antimeridiane del 24 ottobre. Era domenica. Scese prima il principe di Satriano e si pose alla testa delle autorità locali, le quali, con l’intendente Panebianco, attendevano sotto un elegante sbarcatoio. La folla gremiva il molo, e il porto era coperto di barche che circondavano il Tancredi. La gente acclamava a perdita di fiato, e il re si toglieva il berretto, ringraziando. Pareva commosso da quelle accoglienze che forse non si aspettava. Andò al duomo tra una calca di popolo plaudente. Le vie erano tappezzate di arazzi e sparse di fiori, e lo finestre gremite di gente. Al duomo venne cantato l’immancabile Te Deum, e la benedizione fu data dall’arcivescovo Regano. Quando il Re mosse per andare ai Benedettini, dove aveva il costume di prendere alloggio, le campane della città suonavano a festa e il Tancredi faceva salve dal porto. I benedettini gli erano devotissimi. La famiglia monastica, la quale possedeva una rendita di ducati 82 600, pari a lire 360 626, era formata da quarantadue sacerdoti, da quattordici novizii e da ventidue oonversi. Il monastero, vasto quanto una città e ricco d’influenza economica e morale, era fonte di beneficenza inesauribile. L’appartamento dell’abate, che occupava il re, era degno di lui. Abate era don Enrico Corvaja, il quale, a capo della comunità, ricevette il sovrano ai piedi del magnifico scalone. Ferdinando fu scherzoso ed arguto con lui e coi monaci, dei quali conosceva parecchi, chiamandoli per nome, e ripetendo il solito suo saluto agli ecclesiastici: bacio le mani. Ricevute le autorità, ascoltò la messa. Scendendo in chiesa, volle che si sonasse l’organo, affermando che, pur avendolo udito altre volte, se ne sentiva sempre commosso. Cavò di tasca un libro di preghiere, pieno di immagini