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vatore; ma il re, saputo che in Lecce sì trovava il noto buffo napoletano Mazzarra, disse; “Che Trovatore e Trovatore, voglio sentì don Checco; me voglio divertì„. E, in poche ore si dovette allestire il nuovo spettacolo. Il teatro, teatro così per dire, era allora dov’è presentemente il Paisiello: un locale vecchio e affumicato, a cui si addossavano catapecchie cadenti. Lo addobbarono alla meglio, con festoni di fiori, e con triplicati illuminazione. Il palco di mezzo fa destinato alla Corte. Molti spettatori occupavano gli altri palchi, ma la platea era sul principio quasi vuota per l’alto prezzo del biglietto di entrata, sei carlini, stabilito dal direttore don Alfonso Scarfoglio, onde l’intendente ordinò ingresso gratuito a quanti fossero decentemente vestiti, e così la platea si riempi in un attimo. All’ingresso prestavano servizio le guardie d’onore. Il re venne ricevuto dalla commissione nel piccolo atrio; e poiché le cerimonie del ricevimento furono lunghe, dovè restare a capo scoperto per qualche minuto, sulla porta, mentre soffiava forte la borea che penetrava nella platea. La sua alta persona sporgeva quasi tutta fuori del palchetto, angusto per lui. Due gendarmi si collocarono sul palcoscenico, presso ai due palchi di proscenio. La regina sedeva allato al re, e i principi in un palchetto accanto. Alzato il telone, gli alunni del reale ospizio di San Ferdinando cantarono un inno achillinesco, scritto per la circostanza da Enrico Mastracchi e musicato dal maestro Carlo Cesi. Cominciava:
Salve, o Re, che tua gloria ponesti |
E finiva:
Ah, se un di funestissimo il tempo |
Il poeta serbò fede ai Borboni, e io lo conobbi, venticinque anni dopo, in Roma, direttore d’un giornale clericale. Durante la rappresentazione, Ferdinando II parlò con Murena e con diverse autorità. E poiché, come ho detto, aveva l’abitudine di tirarsi su per la cintola i pantaloni, gli spettatori dovettero le-