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Carlo Filangieri conservò i vecchi privilegi dell’Isola: il porto franco a Messina, l’esclusione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco. Furono assoluti i Comuni dai debiti contratti durante la rivoluzione; reintegrati la Chiesa, lo Stato e i pubblici stabilimenti nei beni alienati, e restituiti quelli confiscati ai gesuiti e ai liguorini. Ripristinò la Consulta, istituita nel 1824; e trovando in pessime condizioni l’erario, o non credendo opportuno nei primi tempi accrescere le tasse, istituì un debito pubblico per la Sicilia, che in poco tempo salì alla pari, e poi la superò.
Il principe di Satriano era vissuto nella sua gioventù tra i maggiori splendori, benchè egli fosse personalmente semplice, non senza qualche tendenza all’austerità. Luogotenente del Re in Sicilia, intendeva la necessità di circondare il suo potere di prestigio, un po’ napoleonico, ma di sicuro affetto sulle popolazioni immaginose dell’Isola. Abitò al Cassero, come si chiama il palazzo reale di Palermo ed ebbe una Corte. La reggia Normanna, dov’è raccolta tanta dovizia di arte e di storia, si riaprì ai balli, ai conviti e ai grandi ricevimenti. Gli onori erano fatti dalle bellissime figliuole del luogotenente, ma soprattutto dalla duchessa Teresa Ravaschieri, nel fiore della bellezza e della gioventù, e vi andava talvolta da Napoli o da Parigi il figliuolo Gaetano, bel giovane, à bonne fortune. Il principe riceveva con magnificenza regale. Usciva ordinariamente in grande uniforme, facendo circondare la carrozza da un drappello di dragoni, e qualche volta distribuendo carinelli (moneta d’argento di 42 centesimi) alla poveraglia, che si affollava al suo passaggio. Ristabilì tutto il cerimoniale della Corte di Spagna col relativo baciamano, e nel giorno della festa del Re si vedevano andare in giro i caratteristici carrozzoni con le sfarzose livree. A capo delle milizie prendeva parte alle processioni celebri di Palermo, in mezzo al suo stato maggiore. In ufficio indossava la divisa, anzi ordinò che tutti gli impiegati regi dovessero portar l’uniforme. Si narra che don Antonino Scibona, a cui voleva gran bene, disapprovasse tale ordine, osservando non esser giusto obbligare gl’impiegati, quasi tutti povera gente, a questa spesa. Il principe, trovando giusta l’osservazione, non revocò l’ordine, ma dispose che le uniformi