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quentavano, dopo la morte di Ferdinando II, Cammillo Caracciolo, Gaetano Trevisani, Raffaele Masi, Saverio Baldacchini, Floriano del Zio, Guglielmo Capitelli, Federico Quercia, Giovanni Manna e Luigi Indelli, i quali ne erano anche gli scrittori ordinarii. Il Capitelli ha pubblicato, testé, nel suo Excelsior, parecchi ricordi del Diorama, che non son tutti. Il Capecelatro era convinto unitario fin d’allora e forte giuocatore di scopone, il quale illustrò con un opuscolo che levò rumore e di cui mandò cinque copie al suo parente Giuseppe Antonacci a Trani, accompagnandole con un’arguta lettera, nella quale si legge: ... “io non avrei ardito mandarle costà e turbare la tua pace, se non fossi stato a ciò premurato da S. E. il conte di Siracusa, il quale mi ha ingiunto di mandartene ben molte copie...„ Anche don Leopoldo era appassionato dello scopone, che in Napoli contava glossatori e partigiani ferventi. Don Michele Agresti, procuratore generale della Corte Suprema di giustizia, era uno di questi ultimi, e in casa sua si giuocava lo scopone tutte le sere. Egli, grande magistrato per dottrina e probità, avviava i giovani alunni di giurisprudenza alla scienza dello scopone, persuaso che fosse un utile esercizio della mente per calcolare e ragionare.

Fioriva l’epigramma e non mancavano le Riviste. Si conoscevano l’un l’altro, in quel piccolo mondo che pensava, scriveva e si moveva. L’epigramma era uno sfogo della naturale arguzia, e un po’ anche di necessità sociale, non essendovi altro modo di colpire qualcuno, o di flagellare un vizio o pregiudizio che la forma epigrammatica, ispirata anche dal desiderio di far ridere alle spalle degl’imbecilli e dei vanitosi. Filippo Palizzi, aveva ritratto maravigliosamente un tal Rossetti sordo, e Michele Genova disse:


Questi è Rossetti, esclama ognun rapito;
Tal delle tinte è il sovrumano accordo,
Tutto il pittor gli diè, fuorchè l’udito,
Per non opporsi a Dio, che lo fè sordo.

Ma non era il Genova l’epigrammista più arguto. Tenevano in quel tempo lo scettro dell’epigramma Raffaele Petra, più noto sotto il nome di marchese di Caccavone; Michele d’Urso, e Francesco Proto, duca prima dell’Albaneto, poi di Maddalo-