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— Sì, amo Fathma, ma l’amo, come ti dissi, alla follìa. Io seppi che tu l’amavi e che ella ti corrispondeva, e giurai in cuor mio di togliere l’ostacolo che mi sbarrava il cammino. Ebbi la fortuna di pigliarti e ti seppellii quaggiù per farti crepar di gelosia e sopratutto di fame.

— Non è possibile!... Non è possibile!... urlò Abd-el-Kerim. Fathma non ama che me, mi ha giurato che sarà mia, e mia sarà.

— È ben perchè ha giurato che sarà tua, che io ti spedisco all’altro mondo. Morto te, mi amerà voglia o non voglia.

— Ah! Cane!...

— Zitto, giovanotto mio. Se vuoi vi è un mezzo per riscattare la libertà.

— Quale? chiese l’arabo che ebbe un raggio di speranza.

— Quello di recarti da Fathma e di sputarle in volto in segno di supremo disprezzo.

— Taci, miserabile, taci!... Io ti sbrano co’ miei denti!

— Addio, giovanotto, disse il beduino alzandosi. Oggi stesso partirò per Chartum con Fathma e tu rimarrai seppellito in questa tana che sarà anche la tua tomba.

L’arabo cacciò un urlo disperato e si gettò sul bandito, ma questi stava in guardia. Si trasse prontamente da un lato e gli scagliò su un fianco un sì terribile pugno che il prigioniero cadde come morto.

— Addio, giovanotto, ripetè lo sceicco sogghignando.

Lasciò cadere una manata di datteri, spense la torcia e se ne andò tranquillamente, sbarrando la porta dietro alle spalle.

Per dieci minuti lo sventurato Abd-el-Kerim non fu capace di muoversi tanto era stato forte il pugno scagliatogli dal bandito, poi con uno sforzo disperato si rizzò in piedi e si precipitò innanzi, colla speranza d’arrivare alla porta. Ma le tenebre erano profonde ed andò ad urtare contro un muro umido viscido al quale contatto rabbrividì.