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L’altro col fez è l’arabo Abd-el-Kerim: io li conosco tutti e due.
— Sì, sono i due maledetti. Essi si dirigono al campo dove li aspetta Fathma.
— Calma, padrone, che verrà il dì che l’almea aspetterà voi.
— Puoi star sicuro che verrà quel giorno e mi aspetterà allora in ginocchio. Se tu potessi ammazzarne almeno uno con un colpo di carabina!
— È pericoloso, padrone. Ho il braccio dritto ferito e mi trema, e di più la notte è troppo oscura per mandare una palla a buon segno. Pazientate, li piglieremo entrambi e fra non molto, ve lo giuro.
— Cammina, adunque, e più presto che puoi. Bisogna che tu ti rechi al campo e che mi porti tutto il denaro che trovasi nella mia tenda. Potrebbe darsi che mi occorresse per prezzolare qualche arabo poco scrupoloso.
Il nubiano riprese la corsa, tenendosi dietro le colline sabbiose per non essere scorto dall’arabo e dal turco. Era mezzanotte passata, quando giunse in vista dei primi tugul d’Hossanieh dinanzi ai quali bivaccavano, al chiaro di numerosi fuochi, alcune compagnie di basci-bozuk e di negri d’Etiopia.
Si riposò alcuni istanti, poi s’internò tra i campi di durah e giunse ai piedi di alcune colline aridissime: esitò un momento, poi s’arrampicò su pei dirupati fianchi di una delle più alte, aggrappandosi agli sterpi e ai crepacci e raggiunse quasi la vetta, dove s’arrestò dinanzi a una gran caverna.
— Ci siamo, diss’egli, deponendo il greco a terra.
— È qui che noi pianteremo il nostro nido?
— Sì, padrone, e da questa cima si domina Hossanieh e il campo. Ci sarà facile vedere chi entra e chi esce.
— Sta bene, accendi qualche pezzo di legno per vedere dove si va. Ho paura che abbiamo a incontrare parecchi serpenti.
Il nubiano accese un pezzo di torcia resinosa e tutti e due entrarono con precauzione. Ben presto si