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— Ma come siete stato risparmiato adunque?

— Gettandomi nello stagno e fingendomi morto.

— Sicchè vi credono...

— All’inferno, interruppe Notis ironicamente. Tanto meglio, se mi credono bello e morto. Avrò agio di vendicarmi più facilmente.

— Voi nutrite, adunque, la speranza di restituire quel colpo di scimitarra?

— Non solo, ma di far mia Fathma, disse con aria feroce il greco. Ora che lei mi aborre, sento d’amarla ancor più, e tanto che senza Fathma mi sarebbe impossibile il vivere. Mi comprendi tu, Takir?

— Perfettamente, padrone, rispose il nubiano, ed io vi aiuterò, poichè...

— Zitto Takir. Afferrami fra le tue braccia e portami.

— Dove? Al campo forse?

— I morti non ritornano più fra i vivi, è giusto adunque che io non ricomparisca al campo. Non conosci tu qualche luogo deserto dove possiamo ricoverarci senz’essere veduti?

— Sulla cima delle colline che si estendono al settentrione d’Ossanieh, mi ricordo di aver veduto una bella caverna che potrebbe servirci di abitazione, e che è abbastanza vicina al campo, disse il nubiano.

— Andremo ad abitarla, Takir, e poi penseremo alla vendetta. Orsù, prendimi fra le tue braccia e portami. Io sono debole per ora.

Il nubiano lo prese, se lo gettò in ispalla e partì correndo colla stessa facilità come se portasse un fanciullo. Attraversò come un’antilope la foresta e sbucò nella pianura senza rallentare un solo istante la corsa. Notis gli guizzò fra le braccia mandando una orribile bestemmia.

— Guarda laggiù, diss’egli, mugolando come una belva. Guarda, Takir, guarda.

Il nubiano vide due persone che salivano le colline sabbiose a meno di quattrocento passi di distanza. Riconobbe subito chi erano.

— Quello là col cofatan bianco è Hassarn, disse.