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meno accorgersi che un drappello di cavalieri guidati da Omar si era slanciato dietro di lui.

La gente, vedendo quell’uomo tempestare il cavallo coll’impugnatura dell’insanguinato jatagan, si riparava dietro ai muri o dentro le capanne, credendolo pazzo.

Ed infatti l’assassino aveva l’aspetto di un demente.

Schiacciato da quella catastrofe inaspettata, che dalle cime raggianti della speranza, lo aveva precipitato nell’abisso della disperazione, era addirittura irriconoscibile. Aveva i capelli irti, la spuma alle labbra, il volto spaventosamente scomposto, chiazzato di rosso e gli occhi roteanti in un cerchio sanguigno. Il petto, a mala pena coperto dalle vesti lacerate ed imbrattate di sangue, gli si sollevava violentemente quasichè volesse scoppiare e dalle labbra gli uscivan parole sconnesse, bestemmie, urla disperate, ruggiti.

Egli attraversò, sempre di gran carriera, la città, rovesciando e storpiando più di dieci persone, passò come un uragano sotto la porta che dava nella campagna fugando la sentinella che aveva tentato di fermarlo e in quindici minuti giunse dinanzi alla capanna di Ahmed. Con una violenta strappata arrestò lo sbuffante corsiero che stava per passare sul corpo di Medinek.

— Dov’è Fathma? chiese rabbiosamente al guerriero.

— Il carnefice l’ha portata via, rispose l’interpellato.

— Maledizione!... Dove?

— Al lago.

— Quando?

— Venti minuti fa.

Notis s’allontanò, lanciando il cavallo ventre a terra.

— Padrone! gli gridò dietro Medinek. State in guardia! Avete Abù-el-Nèmr dinanzi!

— Ira di Dio! tuonò il greco. È uomo morto!...

L’animale, col petto spruzzato di spuma, il ventre