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Con un salto lo sceicco fu alla porta della capanna. Aveva compreso che qualche cosa di grave era accaduto e che forse lo riguardava. Dopo di aver insistito, ma invano, per entrare, si rassegnò ad aspettare che i vizir uscissero per interrogarli.

Non corse molto tempo che uno di essi, Juban, comandante delle truppe irregolari, comparve. Egli mosse incontro allo sceicco che brontolava a pochi passi dalla capanna.

— Cercava appunto te, gli disse il vizir.

— Ne era ben tempo, rispose El-Mactud.

Juban si trasse dalla cintola una pergamena arrotolata e la porse allo sceicco che la prese con vivacità.

— Questa è la grazia che tu hai chiesto. Vattene, ma non dimenticare che questa grazia l’hai ottenuta condannando a morte la più bella donna del Kordofan.

— Che intendi di dire? chiese lo sceicco tremando. Spiegati, vizir.

— Han condannato a morte la povera Fathma.

— Giusto Allàh!

— Fra un’ora Yòkara l’annegherà nel lago Tscherkela. Vattene, traditore, nè osa comparirmi più dinanzi. Io ti disprezzo.

Il vizir gli volse sdegnosamente le spalle e rientrò nel tugul. El-Mactud, trasecolato, rimase lì, colla testa china sul petto e le labbra strette, strette.

— Han condannato a morte l’almea! mormorò egli con isgomento. E sono stato io a darla nelle loro mani. Povera donna!... Orsù, cacciamo le emozioni in fondo al cuore e tiriamo avanti. È l’inviato di Dio che l’ha condannata. D’altronde non vi era altro mezzo per salvare il greco.

Si passò a più riprese la mano sulla fronte e terminò col crollare le spalle. Si avvicinò a Medinek, il quale teneva per le briglie un magnifico cavallo nero, di razza abù-rof, che scalpitava impazientemente e rodeva il freno macchiandosi il lucente petto di candida bava.