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distrarli, colla faccia volta alla Mecca, senza fare il minimo gesto onde non correre il rischio che entrasse nel loro corpo il diavolo1; altri invece si purificavano ad una fonte lavandosi le mani, le braccia fino al gomito, il viso, gli orecchi, i piedi, risciaquandosi la bocca e assorbendo l’acqua per le nari.

El-Mactud s’aggirò per qualche po’ intorno alla zeribak spingendo lo sguardo al disopra delle stuoie che formavano il recinto, poi, date alcune istruzioni a Medinek, presentossi al capo della guardia baggàra.

Bastò che pronunciasse il proprio nome perchè gli venisse fatto largo. Si calò il taub in modo da nascondere gran parte della faccia e, dopo aver un po’ esitato, entrò.

Là, dispersi pel recinto, sotto un sole torrido che li arrostiva c’erano quaranta o cinquanta egiziani seminudi, spaventosamente sparuti, coperti di ferite non ancora cicatrizzate e di larghe macchie di sangue. Quei poveri soldati erano i prigionieri di Kasghill, appartenenti all’esercito di Hicks.

El-Mactud, girato lo sguardo attorno, si diresse verso un gruppo formato da alcuni vecchi sergenti che sembravano agli estremi.

— Chi di voi sa indicarmi ove nascondesi una donna? chiese egli, urtandoli colla punta del piede.

— Lasciaci dormire, disse uno di quei sciagurati.

— Cane di un egiziano! esclamò lo sceicco, assestandogli un potente calcio. Se non ti affretti a parlare ti taglio ambe le orecchie.

— Lasciaci in pace, brutto negro, urlò l’egiziano.

Lo sceicco, furibondo, aveva tratto l’jatagan e stava per scagliarsi su quel gruppo di persone inermi, quando improvvisamente si arrestò cogli occhi sbarrati, le braccia tese all’indietro, istupidito, trasognato.


  1. Tale è la credenza dei Maomettani.