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il vento continuava a soffiare con estrema violenza, ingolfandosi con mille gemiti attraverso le fessure dei tugul e contorcendo i rami degli alberi e le grandi foglie delle palme e dei banani. Le vie erano ancora deserte, ma non dovevano tardare a popolarsi. Già alle strette finestre delle capanne cominciava apparire qualche volto color dell’ebano, interrogando, con occhi ancora assonnati, lo stato del cielo.

La comitiva aveva già attraversata la piazza e stava per cacciarsi in una oscura e puzzolente viuzza, quando agli orecchi dello sceicco pervenne un lontano rumore che lo fece trasalire.

Era un brusio di voci, un calpestio precipitato, al quale univasi talvolta un tintinnar di scimitarre che battevano la via.

— Alto! comandò egli imbracciando il remington.

— Che succede? chiese ansiosamente Medinek.

— Siamo inseguiti.

Un istante dopo sbucava nella piazza un drappello di guerrieri armati di moschettoni e di lancie. Alla sua testa trottava lo sceicco Abù-el-Nèmr colla scimitarra nella dritta e una pistola nella sinistra.

Tre colpi di fuoco echeggiarono. Un guerriero di El-Mactud gettò un acutissimo grido e precipitò a terra colla testa attraversata da una palla. L’angareb cadde rovesciando Abd-el-Kerim in mezzo al fango della viuzza.

— Fuggite! fuggite! gridò El-Mactud, dandone lo esempio.

Altre tre fucilate rintronarono seguite da un secondo urlo di dolore. Un altro guerriero cadde fulminato. Gli altri, vista la mala parata, si slanciarono dietro El-Mactud che trottava furiosamente.

Abù-el-Nèmr e i suoi guerrieri non si diedero la cura d’inseguirli, e si fermarono presso Abd-el-Kerim; i fuggiaschi invece proseguirono la vertiginosa loro fuga, battendo l’una dietro l’altra sei o sette strade. Non si arrestarono che sotto le mura della città.

El-Mactud, fuori di sè, aveva la spuma alle lab-