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— Che intendi di fare?
— Di battermela a El-Obeid.
— E porteremo con noi l’arabo?
— S’intende.
— Quando partiremo?
— Appena avrò veduto l’arabo e gli avrò parlato ci metteremo in cammino.
— Allora spicciamoci. Domani mattina Abu-el-Nèmr si metterà in caccia; bisogna trovarsi al sicuro in città prima che spunti l’alba.
— Vado subito. Intanto preparerai una barella e chiamerai qualche altro uomo perchè ci aiuti a trasportare l’arabo.
— Siamo d’accordo, concluse El-Mactud.
Il beduino s’avvicinò al colossale tronco del baobab ai piedi del quale, sulla corteccia, scorgevasi quattro profonde incisioni che venivano a formare un quadrato. Con un pugno sfondò quella corteccia incisa e dinanzi a lui apparve un’apertura che metteva in un antro scavato nell’interno dell’albero.
Stette alcuni istanti in ascolto, poi s’inoltrò sulla punta dei piedi e arrestossi in mezzo a quella bizzarra caverna. Era buio perfetto e faceva un freddo da intirizzire le membra. Un silenzio lugubre, misterioso, regnava là entro, rotto di quando in quando da un respiro affannoso e da un brulichio che doveva indubbiamente provenire da migliaia e migliaia d’insetti che s’aggiravano fra quelle diacciate tenebre.
— Dorme, mormorò il beduino. Lo sveglierò.
Battè l’acciarino, accese l’esca e diè fuoco ad una torcia resinosa impiantata nel suolo, la quale illuminò d’una luce azzurognola l’umida caverna che era poco alta e assai ristretta.
Là, proprio nel mezzo, sdraiato per terra, sonnecchiava Abd-el-Kerim.
L’infelice non era più riconoscibile; incuteva ribrezzo al solo guardarlo.
I suoi lineamenti sparivano, si confondevano sotto una gonfiezza livida. Le sue palpebre erano chiuse