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suoi occhi balenò un lampo di collera e le sue labbra si contrassero mostrando i denti.

— Sai che tu sei ben ardito per parlare così, diss’egli sforzandosi di sembrare calmo.

— Non dico di no.

— E se io t’imponessi di parlare?

— Mi mozzerei la lingua onde non abbia ad emettere suono alcuno.

— E se io ti minacciassi?

— Morrei! disse fermamente il beduino.

Ahmed portò le mani alla cintura cavando l’jatangan, ma lo ricollocò a posto e battè tre volte le mani.

La tenda di pelle che separava in due stanze il tugul si alzò e comparve un negro di statura colossale, con una testa orribile ed enorme piantata su di un collo grosso come quello di un toro. Aveva su di una spalla una pelle di leone e teneva in mano una scimitarra dalla larga lama.

— Vedi quest’uomo? disse Ahmed al beduino.

— Lo vedo.

— È il carnefice. Basta un mio cenno perchè ti faccia saltare la testa; basta un mio cenno perchè ti tagli in mille pezzetti, perchè ti strappa la pelle a brano a brano, perchè ti abbruci le carni coi ferri roventi. Parlerai ora?

— No, Ahmed no. Mi occorre l’uomo che io tradisco.

— Vòkara, impadronisciti di quell’uomo. Se si ostina a rimanere muto gli farai cadere la testa.

Il beduino indietreggiò di qualche passo e un tremito agitò le sue membra, ma ricuperò subito la sua impassibilità, anzi un sorriso sdegnoso, quasi di sfida, sfiorò le sue labbra.

Il carnefice gli si avvicinò e lo fece inginocchiare. Provò il taglio della sua scimitarra e attese.

— Persisti ancora a tacere? chiese Ahmed che sentivasi preso da una viva ammirazione per quell’uomo che sfidava così imperterrito la morte.

— Persisto, rispose il beduino.