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— Non c’è più speranza adunque? balbettò l’egiziano,

— Nessuna.

— È una iena adunque questo Mahdi?

— Taci, se vuoi vivere fino a domani.

L’egiziano emise un sordo gemito e ricadde col volto nascosto fra le mani.

CAPITOLO III. — Il supplizio dei prigionieri.

All’indomani i dintorni della grande zeribak formicolavano di guerrieri accorsi da tutte le parti del campo.

Alcuni si arrampicavano sulle spalle dei compagni più alti, altri sulle gobbe dei cammelli o sui dorsi dei cavalli, degli asini, dei buoi, che sparivano totalmente sotto la folla, e altri ancora sugli alberi che ombreggiavan il recinto, accomodandosi alla meglio fra i rami.

S’udiva per ogni dove un gridìo, un rullare di tamburi e di tamburoni, uno squillare di trombe e un salmodiare dei versetti dell’Alcorano, fragori che spesso venivano coperti da urla disperate. Zuffe accanite succedevano qua e là in mezzo alla folla, che finivano con una coltellata o con una sciabolata, e dai rami capitombolavano uomini che venivano gettati giù dai forti, senza badare se si rompevano la testa o si fiaccavano il collo.

Tutti volevano passare innanzi, tutti volevano guadagnare le palizzate della zeribak nel cui interno dovevano venire giustiziati i prigionieri egiziani.

Soli due uomini non partecipavano a quella forte curiosità e si tenevano in disparte, seduti tranquillamente sulla cima di una collinetta sabbiosa, chiaccherando colla maggior calma del mondo, senza quasi degnarsi di volgere uno sguardo al recinto.

Uno era un uomo di alta statura vestito da beduino, col coftan calato sul volto in modo da non vedere che una barba nera e ispida.