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— Fermi tutti! Ahmed, nostro profeta, lo comanda.
A quel comando dell’inviato di Dio, la pugna tutta d’un colpo cessò. Le armi si arrestarono in aria o caddero a terra, poi il gruppo di guerrieri si sciolse colla rapidità del lampo. Ognuno volse le spalle fuggendo a rompicollo, scalando le palizzate e confondendosi fra le orde che si pigiavano attorno alla zeribak.
Sul campo insanguinato non rimasero che quattro uomini colle vesti a brani e imbrattate di sangue: il tenente arabo che stringeva convulsivamente in mano una scimitarra e tre egiziani che non si reggevano più sulle gambe.
Attorno ad essi c’erano quaranta o cinquanta moribondi che si dimenavano urlando e altrettanti morti, fra i quali uno scièk di colossale statura colla testa quasi staccata dal busto.
— Fermi tutti!.. Ahmed nostro profeta lo comanda! ripetè la voce metallica e imperiosa di prima.
All’entrata della zeribak comparve lo scièk Tell-Afab seguito da dodici Abù-Rof della guardia del Mahdi, montati su bianchi cavalli.
Egli si diresse verso i prigionieri che lo aspettavano a piè fermo, risoluti ancora a vendere cara la loro vita. Scorgendo lo scièk disteso ai piedi del tenente arabo, un lampo di collera balenò ne’ suoi occhi e le sue labbra si contrassero mostrando i denti candidi come l’avorio.
— Chi ha ucciso questo scièk? gridò.
— Io! rispose il tenente arabo senza sgomentarsi.
— Sei uomo morto!
— Poco mi cale.
— Abbassate le armi.
Il tenente invece di ubbidire, impugnò saldamente la scimitarra, dirigendo l’insanguinata punta verso di lui.
Lo scièk parve più sorpreso che spaventato di quella minaccia.