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indietro riparati da un cannone smontato, a quel terribile grido si slanciarono verso l’almea malgrado le palle che continuavano a fioccare.

— Perdio! esclamò l’irlandese. Siamo tutti perduti. Dov’è caduto?

— Là in mezzo a quel gruppo di cadaveri.

— Accorriamo, amici, e non una sillaba. Se gli egiziani lo sanno siamo tutti morti.

O’Donovan e i suoi compagni, scalarono intrepidamente i cumuli dei cadaveri dal disotto dei quali sfuggivano torrenti di nero sangue, e giunsero là, ove era caduto il pascià.

In sulle prime, fra i vortici di fumo non iscorsero che un cavallo riccamente bardato che s’impennava nitrendo, ma poi in mezzo ai cadaveri dello Stato Maggiore, steso sul dorso, colle braccia incrociate sotto la testa scopersero l’infelice pascià.

O’Donovan, coi capelli irti, tremante, pallido, inondato di freddo sudore, si curvò su di lui e l’alzò. Il pascià aveva la faccia marmorea e alterata, la barba irrigata dal sangue che eragli uscito dalla bocca e la tunica forata da due palle.

— Gran Dio! balbettò il reporter. È morto.

Balzò in piedi, afferrò Fathma per una mano e disse:

— Fuggiamo o siamo perduti.

— Ma dove? chiese l’almea pallida di terrore.

— Ho visto una rupe laggiù. La scaleremo.

— Ma il nemico circonda il quadrato.

— Non importa, venite o sarà troppo tardi. Vieni, Omar.

Il reporter, l’almea e lo schiavo attraversarono il quadrato ingombro di morti e di moribondi, di armi, di cannoni, di cavalli e di cammelli e giunsero ai piedi di una gigantesca rupe che difendeva, verso oriente, le linee egiziane.

— Omar, vedi dei nemici sulla cima? chiese il reporter.

— No, rispose il negro.

— Hai una fune?