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— Sì, Omar.
— Siamo adunque vendicati. Fratello e sorella sono entrambi spenti.
— Taci, fuggiamo di qui. Questo luogo mi fa paura.
— Dove andiamo?
— A salvare il mio fidanzato.
— Vuoi recarti sulle rive del lago?
— Zitto, disse Fathma. Odi?
Il negro tese l’orecchio. In lontananza, verso il campo egiziano, s’udivano squillare le trombe e rullare fragorosamente i tamburi.
— Che succede? chiese egli. Una battaglia forse?
— No, è l’esercito egiziano che marcia sulla capitale del Mahdi.
— E noi andiamo?
— A El-Obeid.
L’almea si gettò ad armacollo il remington e discese di corsa la collina seguita dal negro. Ella si arrestò alcuni istanti nella pianura cogli occhi fissi su due punti neri che scendevano dal cielo, ingrandendo a vista d’occhio,
— Guarda, Omar, diss’ella rabbrividendo.
— Vedo, rispose il negro. Sono aquile che calano nel burrone.
— Povera Elenka! Questa sera non rimarranno di lei che le spolpate ossa a pasto delle belve feroci.
Soffocò un sospiro e riprese la corsa internandosi nel palmeto. Man mano che si avanzavano gli squilli di tromba e il rulla dei tamburi diventavano più sonori. Talvolta s’udivano nitriti di cavalli, voci confuse di uomini e muggiti di buoi, che il vento portava.
Cominciava ad albeggiare quando essi giungevano agli avamposti. Il campo era in piena rivoluzione ed interamente mutato. Le tende erano state levate, i fasci di fucili sciolti, i cannoni attaccati ai cavalli, i cammelli e i muli aggruppati alla rinfusa e carichi di viveri, munizioni e bagagli.