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facevansi più forti, l’immagine abbagliante della fiera Elenka s’oscurava, sfumava, scompariva. Persino l’immagine di Notis s’abbuiava e cancellavasi, e a segno che l’arabo credevasi di essere solo con Fathma a percorrere la pianura.

— Fathma, disse d’un tratto egli, con una voce nella quale suonava un accento infinitamente accarezzevole.

L’almea, nell’udirsi chiamare, si scosse e volse il capo verso di lui.

— Fathma, dove andrai quando saremo a Hossanieh?

— Perchè? chiese ella.

— Perchè?... Ma...

— Ti interesserebbe forse il saperlo?

L’arabo sussultò e ammutolì.

— Rimarrò in Hossanieh.

Abd-el-Kerim la trasse vivamente sul petto. Egli si chinò verso di lei, come volesse dirle qualche cosa, ma non ne ebbe il tempo.

— Abd-el-Kerim! gridò Notis in quell’istante.

L’arabo tremò e si volse indietro come se una vipera l’avesse morso.

— Siamo in vista del campo!

Un profondo sospiro uscì dalle sue labbra.

CAPITOLO III. — I due rivali.

Il campo egiziano era piantato in una pianura aridissima, solcata però qua e là da piccoli ruscelli e sparsa di antichi bir o pozzi, a pochi passi dalle ultime capanne o tugul del villaggio d’Hossanieh. Si componeva di un trecento tende, disposte su tre ordini, che si piegavano cingendo la gran tenda del pascià sulla quale sventolava la bandiera egiziana, e quelle inferiori ma non meno elevate, degli ufficiali.

Ottocento uomini, la maggior parte dei quali nubiani e sennaresi, con pochi pezzi d’artiglieria e una compagnia di basci-bozuk a cavallo, erano tutti quelli che occupavano il campo, sotto il comando di Dhafar pascia, uomo agguerrito ed intrepido che conosceva