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e cercò, con un’improvvisa scossa, di rovesciare Omar, ma le forze lo tradirono e ricadde al suolo cogli occhi stravolti.

— Aiuto! aiuto!... urlò egli dibattendosi sotto il ginocchio dello schiavo. Aiu...

L’jatagan di Omar scese rapido come un lampo fendendogli il cranio fino al mento; dall’enorme ferita sfuggì un torrente di sangue misto a brani di cervella. Il nubiano sollevò la terra colle unghie per due o tre volte poi s’irrigidì.

— E uno, disse Omar, asciugando la lama dell’jatagan. Domani Fathma scannerà l’altra.

Gettò uno sguardo sul colossale cadavere del negro, stette alcuni istanti in ascolto, poi, assicurato dal funebre silenzio che regnava nel palmeto, ripresa la scimitarra e le vesti, si allontanò a rapidi passi dirigendosi verso il campo.

CAPITOLO XIV. — L’appuntamento

Il campo si era già addormentato da un bel pezzo, quando Omar, tutto trafelato per la lunga corsa, giungeva alla tenda.

Fathma, sdraiata sulla coperta, col capo appoggiato su di uno zaino, dormiva tranquillamente e O’Donovan vegliava accoccolato presso di lei, fumando una sigaretta e leggendo alcune note del suo libriccino al vacillante chiarore di una torcia resinosa infissa nel suolo.

Al rumore che fece il negro entrando, il reporter alzò il capo.

— Finalmente, diss’egli. Dove sei andato?

— A dire due parole ad un soldato mio amico, disse Omar con aria imbarazzata. Come sta Fathma? Ebbe ancora il delirio?

— No, e spero non delirerà più.

La conversazione cadde lì, il negro e il reporter si sdraiarono a terra, l’uno accendendo il suo scibouk e l’altro ripigliando la lettura del suo notes.