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Takir in breve tempo oltrepassò le tende e giunse agli avamposti, dove arrestossi qualche istante a scambiare alcune parole colle sentinelle. Omar lo udì chiedere notizie sulle posizioni occupate dai ribelli e se questi ronzavano attorno al campo da quel lato. Ricevuta una risposta negativa, il nubiano, passatosi il remington sotto al braccio, uscì dall’accampamento inoltrandosi in un palmeto.
— Dove va? mormorò Omar. Seguiamolo.
Aspettò che il nubiano fosse lontano un centocinquanta passi, poi si gettò a terra e si mise a strisciare fra i cespugli e le roccie con sveltezza straordinaria e senza produrre rumore. Giunto nel bosco si rialzò e s’avvicinò al nubiano che camminava con precauzione girando gli sguardi ora a destra ed ora a sinistra. Stava per puntare il fucile quando Takir si arrestò mandando un debole fischio.
— Chi aspetta? mormorò Omar aggrottando la fronte.
Si gettò in mezzo ad una fitta macchia di acacie gommifere e attese colle pistole in pugno.
Passarono cinque minuti, poi un uomo, un negro quasi nudo armato di una corta lancia e difeso da un grande scudo di pelle d’elefante, sbucò dai cespugli. Con pochi salti egli raggiunse il nubiano che si era addossato al tronco di una palma col fucile montato.
— Sei tu Tepele? chiese il nubiano.
— In persona, Takir, rispose il negro che Omar riconobbe per un guerriero del Mahdi.
— Che hai saputo?
— Nulla fino ad ora. So però che fu fatto prigioniero dallo scièk Tell-Afab.
— È vivo adunque?
— Non te lo posso assicurare ancora. Domani parlerò con un arabo che si trovò presente al combattimento e che accompagnò lo scièk verso il sud.
— Abbiamo almeno qualche speranza?
— Non bisogna nè sperare ne disperare, disse Tepele. Io credo però che Abd-el-Kerim non sia stato