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a piedi avendo cura di nascondersi parte della faccia e uscì in furia.

La notte era di già scesa sull’immensa pianura sabbiosa. In cielo scintillavano le stelle e sull’orizzonte alzavasi l’astro delle notti serene, il quale illuminava fantasticamente quel caos di tende, di cavalli, di cammelli, d’uomini, di fucili, di cannoni, di bandiere.

Per ogni dove s’accendevano i fuochi pel rancio della sera, per ogni dove s’aggruppavano Arabi, Negri, Egiziani, Turchi e Circassi a narrarsi vicendevolmente le avventure della giornata, fumando il narghilèch o il sibouk; per ogni dove s’aggiravano cavalli e muli condotti a dissetarsi ai pozzi.

Dappertutto s’udiva un brusìo, un mormorìo, un chiacchierìo, un muggire, un nitrire, che venivano coperti talvolta dalle preghiere dei devoti, o dai canti e dai tamburelli degli Arabi, o da un fragoroso rullar di tamburi, o da uno squillar improvviso di trombe e non di rado da una scarica di fucili delle compagnie accampate agli avamposti che venivano assalite dai bersaglieri insorti.

Omar, dopo aver girato rapidamente lo sguardo attorno e di aver esitato qualche istante si cacciò fra una doppia fila di tende, saltando via i soldati che sonnecchiavano per terra. Un minuto dopo si arrestava soffocando a gran pena un grido di furore.

Davanti a lui, avvolto in un lungo taub, camminava un negro di statura colossale con un remington ad armacollo. Quantunque fosse notte e il mantello coprisse una buona parte del volto a quell’uomo, Omar lo riconobbe subito.

— Takir! esclamò egli con voce sorda. Che fa qui lo schiavo di Notis? Ti trovo sul mio cammino, il Profeta l’ha voluto: tu sei un uomo morto.

Un feroce sorriso, un sorriso da tigre sfiorò le labbra dello schiavo di Abd-el-Kerim. Le sue mani corsero all’impugnatura della scimitarra, la accarezzò con compiacenza e si mise dietro al nubiano, dandosi l’aria di un ufficiale in ispezione.