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rali sulle quali ondeggiavano lacere bandiere egiziane.
Dappertutto si vedevano soldati, chi sdraiati per terra o aggomitolati come gatti al sole, chi seduti attorno ai fuochi a preparare il rancio, chi occupati a manovrare, chi a esercitarsi al tiro; vi erano egiziani, negri, turchi, basci-bozuk, europei, tutti in differenti costumi. Dappertutto vi erano fasci di fucili che rifulgevano ai torridi raggi del sole, cannoni, tamburi, barili di munizioni, e in mezzo a tuttociò cavalli, muli e cammelli che nitrivano, che ragliavano, che muggivano, formando colla voce degli uomini un baccano assordante, continuo, paragonabile al fragore del mare in tempesta.
— Quanti uomini! esclamò Omar. Che baccano, che confusione, quante armi, quante tende, quanti animali!…
— Tanti ma sempre pochi, disse O’Donovan con un sospiro.
— Non vi pare che bastino tutti questi?
— Pel Mahdi no, sono ancora pochi.
— Lo credete? disse Fathma.
— Sì mia cara, questi uomini non sono sufficienti per vincere il leone del Sudan. Orsù, andiamo da Hicks pascià.
— Qual’è la sua tenda?
— Quella che vedete là in mezzo.
— E quella...
— Di chi?...
— Tiriamo innanzi, mormorò Fathma mordendosi le labbra.
Entrarono nel campo, attraversando quel labirinto di tende, d’uomini e di animali e mezz’ora dopo si arrestavano presso la tenda d’Hicks pascià, dinanzi la quale vigilavano due sentinelle.
— Vammi ad annunciare al generale, disse O’Donovan ad una di esse.
— Ci accoglierà? chiese Fathma con voce visibilmente alterata.
— Certamente, rispose il reporter. Siate forte.