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I giallàba si affrettarono a raggiungere la zeribak nella quale trovavasi abbondante raccolta di fieno, di sterpi e di sterco di cammello, usato dagli arabi per accendere il fuoco. I cavalli furono legati, i fuochi accesi e la magra cena di durah in un batter d’occhio fu preparata e divorata.
Dopo di aver a lungo sulla via da tenersi all’indomani, ciascuno s’accomodò alla meglio coi piedi rivolti al fuoco, acceso nel mezzo della zeribah. Erano le due quando Omar fu svegliato dal nitrire e dallo scalpitare disordinato dei cavalli.
Si levò, prese la carabina e si spinse fuori della zeribah. La luna faceva capolino fra uno squarcio delle nubi e illuminava vagamente la pianura fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Il negro s’arrestò sorpreso e spaventato alla vista di sei o sette leoni che s’avanzavano silenziosamente verso il recinto tenendosi dietro le collinette sabbiose. Alzò l’arma e tolse di mira uno di essi ma poi l’abbassò e andò a svegliare Fathma.
— In piedi, padrona, diss’egli, con un tono di voce che non ammetteva replica.
— Gli Abù-Ròf sono vicini forse? chiese l’almea alzandosi subito.
— No, ma s’avvicinano dei nemici ancor più pericolosi di quei ladroni. Vi sono dei leoni che vengono a questa volta.
Fathma non disse verbo. Armò la sua carabina e seguì il negro fuori della zeribah.
Non erano più sei o sette leoni, ma una ventina. Alcuni strisciavano e altri saltellavano fra le sabbie colla criniera al vento emettendo bassi ruggiti.
— Che facciamo? chiese Omar spaventato.
— Or ti farò vedere, rispose tranquillamente l’almea.
Appoggiò la carabina sulla biforcazione di una magra acacia che cresceva stentatamente fra le sabbie mirò attentamente il leone più vicino.
— Fuoco! mormorò ella.
La detonazione non era ancora cessata che il felino faceva un salto di quindici piedi ricadendo poi