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Il comando venne immediatamente eseguito. Lo scièk Abù-el-Nèmr fu collocato su di una specie di barella formata con lancie incrociate e gli altri si misero a schiantare alberi o raccogliere legne morte, formando una catasta colossale attorno ad una palma isolata.

Il supplizio spaventevole s’avvicinava. Omar e Fathma, vedendo che ormai ogni speranza era perduta, tentarono salvarsi colla fuga. Gettati a terra con una repentina scossa coloro che li trattenevano, si scagliarono a testa bassa sul cerchio dei ribelli impegnando una disperata pugna colle mani, coi denti e persino coi piedi.

Per cinque minuti riuscirono a tener testa al nemico, poi scomparvero sotto una montagna di corpi. Atterrati, legati, percossi a sangue, colle vesti a brandelli, i due disgraziati, malgrado le disperate loro grida e i loro contorcimenti furono trascinati sul rogo e legati saldamente al tronco della palma.

Fathma gettò un grido d’angoscia.

— Aiuto Abù-el-Nèmr! Aiuto! urlò ella.

Le grida selvaggie dei ribelli e il fragore della daràbuka1 soffocarono la sua voce e le imprecazioni di Omar che si dibatteva furiosamente insanguinandosi i polsi. Erano perduti.

Già un uomo si avvicinava con un tizzone per mettere fuoco alla pira, già i ribelli alzavano le lancie per saettare i corpi dei due prigionieri, quando si udì una voce tonante, imperiosa, gridare:

— Fermi tutti! voi abbruciate la favorita di Mohamed Ahmed!

Lo scièk Abù-el-Nèmr era improvvisamente apparso sul sentiero, portato a braccia da quattro guerrieri, I ribelli, nello scorgerlo col volto contraffatto dall’ira, e nell’udire quelle parole, si erano arrestati come pietrificati, guardando con occhi smarriti ora il loro capo e ora i due prigionieri che tendevano le braccia verso il salvatore.


  1. Sorta di tamburone.