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commossa. Non credeva d’avere ancora degli amici fra i ribelli. Distendi la tua gamba ferita; io ti guarirò.
Lo scièk ubbidì. L’almea esaminò accuratamente la ferita che continuava a sanguinare. Era orribile: il leone con un potente colpo d’artiglio aveva lacerato la carne fino all’osso della coscia. Comprese subito che un ritardo di pochi minuti poteva riuscire funesto.
— Vammi a prender dell’argilla in quel fossatello, diss’ella a Omar, e raccogli un po’ d’acqua fresca.
Il negro partì come un lampo e ritornò poco dopo con una grossa palla d’argilla grigiastra e morbida e una fiasca d’acqua. Fathma ravvicinò delicatamente le labbra della ferita, vi sovrappose un pezzo di tela bagnata, e coprì il tutto con un grosso strato di creta che impediva al sangue di trasudare. Tre o quattro foglie e alcune braccia di corda terminarono l’operazione. La gamba del ferito si trovò chiusa in una specie di manicotto ben legato.
Ora, diss’ella, bisogna lasciare il più presto possibile questa foresta e raggiungere qualche luogo abitato. Dove possiamo trovar gente?
— L’ignoro, rispose il ferito con voce debole, tergendo il sudore che colavagli abbondante dalla fronte. Ho lasciato da due giorni il campo e mi sono smarrito in questa foresta.
— Quale distanza corre dal fiume a Sciula?
— Meno di una giornata di cammino. Se tu mi conduci là troverò i miei guerrieri.
— Ma... e noi?
— Oh! non temere! esclamò vivamente lo scièk. Io sono il loro capo e sventura a colui che ardirà alzare una mano sopra di voi.
— Sta bene, ma come ti trasporteremo? Bisognerà costruire una barella.
— Ho il mio cavallo che deve pascolare nei dintorni, se non fu divorato da qualche leone.
— Chiamalo. Non bisogna perdere tempo; la febbre e forse il delirio fra poche ore ti assaliranno.