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— Vi potremo entrare? Temo che i ribelli l’abbiano occupata.
— Lo so bene io, ma non c’è altra via da scegliere. Chissà forse i ribelli non l’hanno ancora assalita. Ad ogni modo ci avvicineremo con precauzione.
— La via sarà libera poi?
— È difficile saperlo. Sono certo che prima di giungervi incontreremo dei ribelli.
— La situazione nostra non mi sembra brillante.
— È quello che penso pur io, mormorò Omar sospirando. Mettiamoci nelle mani di Allàh che tutto può; è quanto ci resta da fare.
— Quando è così mettiamoci in cammino, disse Fathma risolutamente. Arma il fucile e apri per bene gli occhi. Che Allàh ci protegga.
Essi salirono la sponda e s’inoltrarono coraggiosamente sotto le foreste, aprendosi a gran pena il passo fra quegli immensi vegetali, dai tronchi colossali i cui rami s’intrecciavano a perdita d’occhio come gli archi gotici di una cattedrale sconfinata. Regnava là sotto un caldo soffocante, una temperatura da stufa che toglieva il respiro e che faceva zampillare addirittura il sudore dalla fronte degli intrepidi viaggiatori. Un silenzio lugubre rendeva la marcia più penosa, più monotona.
Dopo di aver percorso più di un miglio, essi si trovarono dinanzi ad una foresta di baobab. Nulla di più meraviglioso della vista di questi giganti delle boscaglie africane, ai quali non si esita a dare una longevità di seimila anni, dal tronco sproporzionato che supera spesso i venticinque metri di circonferenza dai rami bassissimi ma immensi che formano da soli un boschetto picchiettato da capsule legnose che sembrano zucche, lunghe venticinque o trenta centimetri, di tinta verdognola, coperte di bianca peluria, e delle quali sono ghiottissime le scimmie.
Fathma e Omar si erano arrestati ai piedi di uno di quei colossi per prendere un po’ di riposo, quando a sei o settecento metri lontano echeggiò improvvi-