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tendo un semplice khh! khh! sospirato e s’arrampicarono sulle gobbe sedendosi colle gambe incrociate.

— Allàh vi guardi, disse il sudanese.

Ih! ih! gridò Notis.

I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava all’ovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere l’equilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.

L’oscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che s’attortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che s’arrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.

I mahari eccitati dalla correggia dei cavalieri, che serve nel medesimo tempo di frusta, in meno di quindici minuti attraversarono la foresta, la quale stendesi in lunghezza, si a destra che a sinistra del Bahr-el-Abiad, da Chartum fino ad Machadat Abu Zet, su due miglia o poco più di larghezza. Sbucati nelle grandi e aride pianure di Gemaije, animate solo da qualche gruppo di palme, da qualche